E se io trovo il coraggio di parlare (quanta fatica costa, e quanto grave è il peso sull’anima), se trovo il coraggio, pur nella consapevolezza dei limiti e della ovvietà, è perché vorrei dar valore proprio alle parole di Giuseppe, e stento ancora a credere che per lui non ci sia più spazio su questa terra. Vorrei farlo con le sue parole, dunque, le uniche forse in grado di fungere in qualche modo da lenimento.
E sono le parole che ho scovato in un libro realizzato nel 1997, in terza media; libro che ci ha visti tutti protagonisti, lui con i suoi compagni in qualità di alunno, io come docente, davvero privilegiato per averlo avuto con me tre anni in un rapporto improntato alla correttezza, al dialogo, alla signorilità e alla cortesia, all’affetto sincero ed autentico, alla stima, come raramente accade. Nel libro, che nella seconda parte ha per titolo “Ricordario” e che suona oggi come tristemente significativo, ci sono esperienze diverse che segnano il livello di crescita e qualche poesia di Giuseppe, allora fanciullo, ma già maturo e proteso a comprendere il senso della vita e della morte in una sorta di beffarda premonizione: la vita colta nella sua fragilità e la morte come tappa della vita, quasi quella signora vestita di nulla di gozzaniana memoria.
Ed ecco i suoi versi sulla vita:
“La vita è una foglia
al vento,
non sai mai dove andrai.
L’amore è un’avventura
fondamentale.
Nella vita amicizia e amore
quasi una trinità
ti fanno forte
l’anima.
Appianano la via
come per miracolo.
Corre la vita
nella sua discesa
e un pallido sorriso
chiude la sera
se non ti manca amore
ed amicizia.”
E la sera per Giuseppe è scesa, inspiegabilmente, troppo in fretta, troppo crudamente, con le ombre scure e senza possibilità di nuove albe terrene.
Ma leggiamo quello che scrive sulla morte:
“La morte
è una fermata stabile
della vita.
Una tappa obbligatoria,
si scende dal treno
dell’esistenza
per salire su un altro
che scorre infinito
nei poteri della vita eterna.
Paradiso di nuvole immenso
con altre persone, anime
e con Dio
che ci guarda da lassù
nel sorriso.”
Morte, dunque, con il senso dell’ineluttabilità; morte che ora ci sgomenta e ci lascia increduli nella nostra impotenza e ci fa pensare, nel tempio del Signore, proprio a un tradimento da parte Sua e, per usare il titolo di uno straordinario libro di don Vito, sbigottiti e attoniti, ci fa domandare a Dio: “E Tu taci?”. E nella domanda c’è una chiara accusa, con al fondo rabbia e forse anche rancore nei Suoi confronti, perché ci resta sempre inspiegabile la ragione per cui Egli permette una simile tragedia e non interrompe benignamente il filo di una terribile concatenazione di cause tanto più perché è Dio d’amore e gli basterebbe il più semplice dei gesti liberandoci anche da rovellìo dei se che si susseguono nel nostro animo: se Giuseppe quel giorno fosse uscito di casa un minuto dopo; se si fosse attardato qualche attimo; se non si fosse imbattuto… se …se…e ancora se. E nel tormento, con gli inevitabili sensi di colpa, pronti ad aggredirci, ci pare che Dio sia distante, distratto, sordo e muto e ci viene finanche spontaneo, arrabbiati e delusi come siamo, ripetere proprio le parole di don Vito con riferimento alla morte innocente di tanti bambini: “Signore, questi bambini come possono perdonarti?” E noi aggiungiamo: “E Giuseppe come potrà?” E poiché siamo certi che Giuseppe potrà farlo ci viene quasi da urlare che noi non potremo… Qui rischiamo di essere blasfemi a causa dello sconforto che è totale, ma siamo certi che Dio solo, in questa nostra desolazione sconfinata, potrà darci un segnale, indicandoci la via del conforto, magari attraverso i ricordi buoni che ci legano a Giuseppe e le cose belle e confortanti che non mancano. E magari ancora una volta attraverso la sua poesia, questa volta, sulla linea degli affetti familiari e del legame, diverso eppure speciale, per la madre e per il padre.
Della madre scrive:
“… sei unica per me
mi segui da lontano
ma non mi sono mai stancato
di vederti.
Sei una rosa
dai petali soffici
che soavi cadono per terra
e tingono di rosso
il nostro amore
che resta forte assai
oltre l’apparenza.”
Al padre scrive:
“Persona unica e rara
forte punto di riferimento
nella mia bianca esistenza.
Per vivere
sei vero e ti respiro piano
come il tuo bene
silenzioso.
Se pur mortale sei
per me superi il limite
unico amore della mia vita.
E leggo nei tuoi occhi
l’infinito
come la tua bontà
senza parole.
Forse ti vedo un Dio
e sulla cima dell’Olimpo
del mio cuore
e se ti cammino a fianco
nulla io temo:
due rupi siamo
e il mare della vita
batte i suoi flutti
sugli scogli.
Restami padre
accanto sempre
come la brezza lieve
e parlami talvolta
con un sospiro.”
Anche qui non occorrono parole; ogni commento è superfluo ma io vorrei cogliere questi ultimi versi per dire al papà di Giuseppe, a Mario: devi essere rupe come tuo figlio scrive e se ti venisse voglia di lasciarti andare, di negare alla vita un senso, di abbandonarti, di consegnarti a gesti di follia, e avresti tutta la nostra comprensione, devi essere rupe, devi farlo per Giuseppe, perché se è vero che non c’è più, e per questa sua assenza siamo tutti impoveriti mentre il cielo si impreziosisce di un angelo speciale, è anche vero che nel cuore egli resta punto fermo coi ricordi che ce lo restituiscono integro. Ora Giuseppe ci guarda tutti dall’alto con la indulgenza piena che il Cielo gli dona e, a buon diritto, potrà intercedere per tutti noi e intanto mentre mi pare di sentirgli dire che la madre è sempre la rosa dai petali soffici, a Mario certamente ripete:
“Sii rupe…
e poi aggiunge:
Restami padre
accanto sempre
come la brezza lieve
e parlami talvolta
con un sospiro.”